Marco Molteni
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Jol


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L'album

JOL

Lo studioso Jean-Jacques Nattiez, impegnato a smontare idee troppo semplicistiche su quella cosa misteriosissima che è il significato della musica, racconta un esperimento fatto in una classe di bambini. Dopo aver fatto ascoltare "L'apprendista stregone" di Dukas (ben noto a buona parte del grande pubblico grazie a quella meraviglia che è il film Fantasia: quei bambini però il film non lo conoscevano), Nattiez chiede ai giovani ascoltatori di dire" cosaaccade" in quella musica. I bambini si dividono. Per uno di essi, siamo «di notte in un negozio di giocattoli», «tutto è tranquillo», «di colpo un giocattolo si sveglia» e «un soldatino di piombo fa la corte a una bambola»; ma «all'alba il commerciante ritorna e ritrova gli oggetti al loro posto». Per un altro, «un uomo cammina tranquillamente sulla strada quando sopraggiungono dei cani», «si mette a correre fino a un albero» e dopo diverse peripezie finalmente «i cani se ne vanno». Commenta Nattiez: ovviamente, «che i bambini arrivassero alla poesia di Goethe sarebbe stato tanto sbalorditivo quanto il fatto che una scimmia posta di fronte a un computer battesse a macchina "Il nome della rosa". Eppure, nella maggior parte dei bambineschi racconti Nattiez trova delle situazioni comuni, riconoscibili: la stasi iniziale, un primo evento, una dialettica fra cose che succedono e modi di reagire, infine un ritorno alla stasi.

La musica è chiara.
Nella musica di Marco Molteni, alcuni segni sono inequivocabili nel loro incarnare un'energia schietta, positiva, inarrestabile. Sono le sequenze di impulsi di Folio Cinque (Oh! Be A Fine Giri, Kiss Me), che corrono, si impennano, ricadono e di nuovo si slanciano. Corrono danzando, gioiosamente eccitati: vive in loro l'anima del jazz, sopratutto di quelle forme che dal be-bop in poi hanno imparato a far vibrare il corpo, a liberare energie che altrimenti resterebbero chiuse in una zona di sicurezza. In Folio Dodici (Joy of Lite) queste energie trionfano volubili, virano verso sonorità schiettamente tribali, come quando il pianista ribatte furiosamente il tasto più grave dello strumento: non sono forse la civiltà e la "buona educazione" a frenarne lo sfogo in tanta parte della vita di tutti i giorni? La danza è anche gioco. Quasi per gioco in Folio Tre (troublemaker's breaking stomp) il pianista può scegliere di interrompere la corsa su un suono qualsiasi, quasi "sbattendoci contro", fermandosi r, quanto vuole, per poi riprendere la corsa (e poi di nuovo interromperla se lo vorrà). Giocano le due marimbe di Hot Cucumbers and Beans e di quando in quando le illumina un certo tal accordo, quel do maggiore che da sempre in musica dice bianco e luce. (Per gioco, anche, i due strumenti a metà brano sembrano prestarsi a un fugato: condensato di quei cari vecchi metodi contrappuntistici che si insegnavano e ancora si insegnano nelle accademie). Energia che corre, scherza, disegna. E invece in luoghi differenti, in segni differenti, può manifestarsi ciò che è totalmente altro. È il luogo dove l'energia tace: lo sguardo si fissa sul vuoto, le palpebre non sbattono più, l'oggetto irretisce chi lo guarda in un'immobile contemplazione. Sono le lunghe note nel registro acuto del clarinetto in Yellow tor Piet, non vibrato, a tempo calmissimo. È l'episodio "delicato e sognante" di lncoming Cali; polpastrello, suoni armonici, solo due note in lenta oscillazione, in cui perdere memoria di ciò che fino a lì era stata la musica. L'abituale dialettica del pensiero viene meno, non si fanno più domande: si vede e nient'altro. E quando il sortilegio si interrompe - quando si torna alla musica quella "vera·, quella che vive e scorre - è quest'ultima a sembrare estranea, inopportuna. La musica è chiara? Ce lo chiediamo non solo nei singoli segni, ma anche nel loro disporsi nel tempo, costruendo storie. Se in un brano (non menzioniamo: evitare spoiler) l'elemento altro irrompe dapprima in modo fugace, ma già così mette in fuga le certezze di un'energia troppo noncurante, troppo disinvolta - e allora questa deve poco a poco riprendere confidenza, ripartire - fino a un irresistibile bocgie-woogie - ma poi l'altro, la Sfinge è di nuovo Il, ora in maniera totale - c'è tempo solo per un'estremae breve movenza di valzer, quella da cui in effetti era cominciato tutto, ma allora non l'avevamo capita, forse nemmeno colta - se uno di questi pezzi, dicevamo, allinea in questo modo i suoi segni: allora sembra quasi di poterlo capire. Non lo sapremmo tradurre in un altro linguaggio, non potremmo raccontarlo a parole (o se lo facessimo tradiremmo più di quanto coglieremmo), ma si ha l'impressione di afferrarne un senso, uno dei possibili.
La musica non è chiara.
All'ascolto di Green Papaya, i due flauti sembrerebbero liberi di fermarsi e di ripartire, una direzione dopo l'altra. Eppure l'apparente libertà non spezza le catene di una vaga ossessione: è come se i confini di tutte le loro esplorazioni fossero già fissati dall'inizio, ancora non lo sanno ma sono prigionieri della loro stessa fantasia. L'energia che vive in Folio Quattro (Burlesca del velo di Tisbe) è diretta, decisa, è vero, ma non sembra girare in tondo? Nelle pagine iniziali di Yellow lor Piet l'energia si manifesta in figure funamboliche. Ma il battito - il respiro - non sono troppo veloci? Nell'ambito della fisiologia umana, quale energia "vera · (non contraffatta, non passata attraverso la lente del dubbio o della chimera) potrebbe dawero esprimersi a questo tempo vertiginoso?
Forse non è chiaro questo: se la musica ci dice ciò che è - o ciò che potrebbe essere - o ciò che non sarà mai, perché non è nell'ordine delle cose. Allora è normale che in un tal momento, a un tal ascolto, anche le pagine più vivaci possano mostrare l'ombra della malinconia o anche dell'inconsistenza. Nel linguaggio verbale, attraverso l'intonazione della voce e le mille sfumature della comunicazione corporea, possiamo esercitare l'ironia: il che non
significa sempre ridere e scherzare, ma piuttosto dire una cosa per alludere al suo contrario - lasciando intendere che non ci crediamo, o che sappiamo che non l'avremo per sempre.
La musica di Marco Molteni mette in scena il labirinto, per esempio in Folio Nove (Non più tardi di ieri, ancora oggi), o in Memory walk (da Three Pills). La musica tenta una direzione, torna indietro, ricomincia uguale: oppure si va avanti e poi si scopre di essere esattamente al punto di prima. È il labirinto della musica, che non è chiaro se
infine trovi uno sbocco e quale sia. Ma è anche il labirinto dell'ascolto: alla ricerca di un senso, e di una pagina
come Folio Nove si ricorderanno più facilmente le infinite svolte e corridoi, piuttosto che l'enigmatica apparizione di un varco che conduca al di fuori di essi. Se la musica non è chiara, allora la decisione di scriverla (e di scriverla in questa maniera di cui stiamo dicendo) è il tratto decisivo. Il compositore sa tutte le ambiguità, sa il labirinto e tutto ciò che non sarà: eppure scrive e crea le sue storie senza storia, in una lingua che non è una lingua.
Ne nasce una poesia estrema, che talvolta occupa tutta la pagina. In Folio Uno (Valzer lento) è quel genere di musica che capita di sognare, e poi al risveglio ricordiamo solo che c'era dentro tutto lo stupore del mondo. In Folio Due (Stelutis Alpinis) è un canto popolare, che cala la musica in un analogo appartarsi dal tempo. In Tagging Lunar Eclipse 4 è una musica precedente, nota, che quasi per gioco presta la sua sensualità. Tutte queste musiche si trovano infine riunite in un disco singolare, con mille interpreti e percorsi. Intorno a Folio Dodici (Joy Of Lite) ruotano tutti gli altri brani, disponendosi a specchio intorno a esso. Evidente il fatto che la prima traccia sia associata all'ultima (stesso brano ma con l'aggiunta della batteria) ma simmetrici rispetto al centro sono anche le due versioni del Sillabario dei tempi incerti, i due pezzi per organo (Mir e l'estratto dai Sei brevi per organo), e relazioni più sottili legano anche le altre coppie. Collante e tappa obbligata è il pianoforte, a cui è destinata la nutrita serie dei "fogli". Poi c'è il titolo.
Chi conosce Marco Molteni sa o immagina come non sia stato senza esitazioni. Eppure è quello: la musica non mente, la Joy of Lite è autentica. Il dubbio che nutriamo interrogandoci sulle cose, lo cancelliamo vivendole. Nel gesto del compositore che scrive musica non vi è ironia - se non quella, ineludibile, dolce e sorniona, che ci accompagna quando camminiamo al bordo delle ombre.

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Discografia
Marco Molteni
L'artista

Marco Molteni

Marco Molteni (Mariano Comense 1962), presso il Conservatorio G.Verdi di Milano ha studiato composizione con Luciano Chailly e con Giuseppe Giuliano e musica elettronica con Riccardo Sinigaglia.
Negli anni '80 ha frequentato i corsi di perfezionamento in composizione tenuti da Franco Donatoni presso l’Accademia Chigiana di Siena e l’Associazione francese MC2 Musique Contemporaine di Avignone.
Nel 1985 ha frequentato l’Atelier de Recherche Instrumental organizzato dal flautista francese Pierre Yves Artaud presso l’Ircam di Parigi.
Dal 1986 al 1994 ha preso parte ai Ferienkurse fur Neue Musik di Darmstadt.
La sua musica è stata più volte premiata in importanti Concorsi nazionali ed internazionali di composizione ed è pubblicata da UE Universal Edition e da Ars Publica

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